L uomo e le stagioni: rileggendo «Tempo di marzo»
ALDO MORESI
"GdP", 07.03.2001
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E' tempo di marzo, nell'aria si avverte già in certe giornate di sole il
respiro della primavera.
Presto nei prati sbucheranno i bucaneve, e sulle siepi faranno capolino altri
fiori bianchi, rosa, messaggeri della bella stazione. Le piante incominciano a
mettere le gemme e presto i mandorli, i peschi si apriranno alla luce ed
all'azzurro a rinnovarci il miracolo della primavera.
La neve ha fatto in questi giorni la sua effimera apparizione quasi a ricordarci
che l'inverno non è ancora trascorso; infatti la natura è ancora stretta dalla
morsa dell'inverno.
Presto nei boschi, nei prati, sarà tutto un brulicare di voci, e la natura sarà
tutto un canto per esprimere la gloria della risurrezione al Creatore!
Ho riletto in queste giornate ancora uggiose il bel libro del nostro poeta e
scrittore, Francesco Chiesa, «Tempo di marzo» dove con un linguaggio semplice
e chiaro ci parla di questo mese, ricordando con nostalgia gli anni
dell'adolescenza, della bellezza di certi mattini in campagna, i giorni di
scuola vissuti in quelle aule polverose, le strade fuori mano, i giochi sulle
piazze del villaggio, le prime esperienze nate con l'incontro di compagni, il
colore del cielo in certe albe e quelli delle lunghe sere d'inverno, in un
villaggio lontano dalla città.
Ripassando queste pagine ho ritrovato un pezzo della mia infanzia trascorso lassù
nella mia selvaggia Valcolla, e precisamente a Certara: un paesino, come tanti,
della Valle, abbarbicato alle falde del monte, con le sue quattro case.
Se chiudo per un istante gli occhi rivedo, come per incanto, la scuola del
villaggio con le sue ampie vetrate e, dentro l'aula, il buon maestro con la sua
bianca chioma, assiso alla scrivania mentre leggeva le belle favole di Andersen
o di un altro narratore. Intorno l'uditorio dei ragazzi della mia età assorti
nell'ascoltare la voce chiara del maestro.
Mio zio, a quell'epoca, si era quasi alla fine del secondo conflitto mondiale
che aveva insanguinato l'Europa, era stato designato sindaco, carica che tenne
per oltre un trentennio.
Ogni sabato pomeriggio, dopo il lavoro in campagna, si recava presso la sede del
Municipio, dove l'attendeva il segretario, Elvezio Lucca, a sbrigare, come
diceva, gli affari del Comune.
Ricordo quando giungevano i bergamaschi ad aiutare la mamma e i familiari al
taglio del fieno; lo zio li aveva incaricati del taglio dei boschi del nostro
patriziato. Erano baldi giovani che facevano innamorare le signorine del
villaggio.
Nelle belle sere di marzo ai primi tepori tutti insieme ci radunavamo sulla
piazza a cantare le canzoni di Castelnuovo «Emigrante», «l'addio del giovane
militare», «Verzaschina» ecc.
In quel periodo giungevano dalla vicina Cavargna i contrabbandieri con le
bricolle piene di riso che ci hanno permesso di sfamarci in certi giorni tristi.
Avevamo il necessario per vivere ed eravamo, si può dire, contenti di nulla.
Anche il poco ci bastava. Oggidì il superfluo, invece, non basta più.
Ricordo anche le rogazioni in campagna nel primo mattino. Lungo sentieri di
campagna con in testa il buon parroco di allora don Carlo Rossini, andavamo
cantando litanie in onore di Santi protettori per invocare, per le nostre
semine, un buon raccolto.
Mio padre, con altri, era emigrato in America. La mamma con altri familiari
accudiva al governo della casa e della piccola azienda agricola.
Penso che, in questo tempo, senza valori umani, dove impera l'egoismo,
l'indifferenza e il disamore, occorra ritornare agli antichi valori della vita,
alle nostre tradizioni, a tutto ciò che abbiamo lasciato, dimenticato, per
ritrovare ancora un supplemento d'animo che ci consenta ancora di vivere in pace
con noi stessi e con il prossimo, nel segno di un'umana solidarietà.
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